"La difficile eleganza di Franco Gentilini" di V. Sgarbi (2002)    


in: L. Gavioli (a cura di), Gentilini opere 1928-1981, catalogo della mostra, Castello di Carlo V, Lecce, Marsilio, Venezia-Mestre, 2002
   
“I veri pittori dovrebbero divertirsi. Quelli che si strappano i capelli perché mancano d’ispirazione mi fanno ridere”. È una dichiarazione che Franco Gentilini fece nel 1975 a Franco Simongini, in un documentario RAI Come nasce un’opera d’arte: un documento, quello di Simongini, certamente prezioso per capire lo spirito del lavoro e dell’opera di Gentilini. […] Nel vederlo in azione, allo stesso modo attento e tranquillo, ci si accorgeva subito di qualcosa di diverso: Gentilini si deriva a dipingere pensando che anche chi vedeva le sue opere condividesse almeno in parte il suo divertimento.
Non era giusto, per la critica più intellettualistica e massimalista di allora, che un artista si divertisse per conto proprio. Il “vero” artista del secondo Novecento doveva rappresentare la coscienza di un mondo terribilmente imperfetto, ingiusto, inquieto, e rivelarne apertamente le contraddizioni. Doveva “sentire” le colpe dell’umanità, la “vergogna” della guerra, dell’olocausto, della bomba atomica, dello sfruttamento dei più poveri ed esprimere il disagio esistenziale della collettività attraverso un’arte “sofferta” come poteva essere quella dei Sacchi di Burri o delle Composizioni informali di Vedova. Bisognava inventare sempre qualcosa di nuovo e di sacrilego per richiamare l’attenzione, chiudendosi (come Fontana per esempio) nell’aristocratico isolamento di una ricerca destinata alla comprensione di una ristretta cerchia di eletti. In questa visione “impegnata” ed élitaria dell’arte c’era anche uno spazio per il gioco e per il divertimento, ma in un modo del tutto diverso da quello “interiore”, vero di Gentilini: ci si scagliava infatti contro coloro dai quali si pretendeva l’applauso e li si provocava nelle loro convenzioni borghesi. […]
Gentilini sorrideva davanti a certi oltranzismi, non tanto perché li disprezzasse, ma perché riteneva che il suo modo di concepire l’arte non fosse meno nobile e lecito di quello “impegnato”. L’arte può essere certamente riflesso di un mondo malato, ma anche consolazione, evasione dai suoi dolori, ricerca del piacere, soddisfazione del nostro bisogno di sognare, di fantasticare, senza alzare la voce, senza sentirsi profeti, senza credersi, per forza, migliori.
Da quando l’arte è arte, da quando la poesia esiste, è sempre stato così: Raffaello, Michelangelo, Guido Reni, Ingres, De Chirico s’inventavano, in pittura, mondi alternativi a quelli reali, perfetti, privi degli orrori del presente, privi delle offese alla bellezza. Perché questo modo apparentemente “disimpegnato” di vedere l’arte non può essere coerente con i tempi moderni?
Oggi è facile ammetterlo, ma ieri ci voleva più coraggio da parte della critica, proprio quel coraggio, vero o presunto, che tanto apprezzavano gli artisti.
L’arte, immunizzata dal presente, non ha accompagnato Gentilini fina dai suoi esordi, ma è stata una conquista graduale. Dopo l’apprendistato fra i ceramisti faentini, dopo una prima scoperta del piacere artigianale della manualità, ha scelto di andare oltre.  […] 
La sua non era certamente una pittura “disimpegnata”, ma vibrante, carica di tensioni anche quando elaborava composizioni statiche e tradizionali; erano le tensioni vitali e intellettuali del momento, quelle con le quali ci si misurava con un regime che da una parte sembrava promuovere le arti nel modo più meritorio, dall’altra inibiva ogni tentativo di praticare una ricerca formale fuori dal controllo del potere. Gentilini cercava di raggiungere un difficile equilibrio con la propaganda fascista, fonte di notevoli successi pubblici apprezzati da un mercante dall’occhio finissimo come Carlo Cardazzo. Negli ultimi anni della guerra, però, a regime ormai dissolto, Gentilini sembra liberarsi dai retaggi classici e neo-umanistici per acquistare forza nella rappresentazione del mondo più emarginato, come in una riedizione aggiornata, più ancora che di Ensor, di Alessandro Magnasco.
Un nuovo soggiorno a Parigi, nel 1947, anticipa la svolta di Gentilini e inaugura il suo percorso di successivo “disimpegno”, in realtà di assoluto rinnovamento formale. Il Cubismo, ma soprattutto il Surrealismo di Chagall diventano il nuovo riferimento a cui guardare per guadagnare respiro internazionale, per emanciparsi dalla pittura ufficiale in cui le compromissioni con il potere avevano espresso esiti anche imbarazzanti. L’anti-naturalismo del colore che aveva caratterizzato gli anni tra le due guerre viene ora applicato al disegno, sempre più primitivo, sempre più elementare nel ribaltare i normali riferimenti prospettici o nell’approssimare il chiaroscuro plastico, soprattutto sempre più giocoso e forte nello spirito, come se la retorica dell’angoscia venisse ripudiata. Anche il colore è più netto e disteso, ma ciò che risalta è la sorprendente consistenza della materia, modernissima, ruvida e pulviscolare nel suo composto di sabbia e olio, in ricordo di Campigli non meno che degli affreschi antichi; e il disegno segna eleganti percorsi come un graffito. Una nuova esigenza d’espressività sta coinvolgendo Gentilini, la ricerca di una figurazione “minimale” su cui iniziare un nuovo lirismo dell’immaginazione, un’aura neo-metafisica dai caratteri semplici ed essenziali, ma niente affatto decorativi, gradevoli se non nella disposizione creativa. Una visione che prelude a quella di Domenico Gnoli. Un anti-classicismo di fondo, dunque, ancora una volta, quasi fosse una cifra costante in Gentilini, viene compensato dalla classicità tutta italica del repertorio figurativo: i nudi femminili, le cattedrali, i banchetti, visti come emblemi formali, archetipi senza tempo fra archeologia e quotidianità. È su questi caratteri che Gentilini raggiunge il suo “disimpegno”, con non troppe varianti dopo gli anni cinquanta, come se un traguardo fosse stato finalmente raggiunto: quello della felicità, per se stesso e per chi guarda le sue opere.