Forse, da bambini, inconsciamente, costruiamo il nostro destino di uomini. Non so quale sia il ‘momento’ in cui balena sia pure larvatamente, quella che poi diventerà una vocazione e da quali remote cause essa viene fino a noi. Io, fin da ragazzo, ho avuto spiccato il senso dell’osservazione della realtà. Mi attraevano le architetture dei palazzi, delle cattedrali; le une e le altre esercitavano su me un forte potere di suggestione e di fascino, insoliti in un’età in cui si è portati verso altre predilezioni. Ero addirittura affascinato dal gioco prospettico delle facciate delle cattedrali e dalle grafie simboliche dei segni; dagli armoniosi ricami gotici e romanici dei palazzi. Ho trascorso chissà quante ore, così, a inseguire, a mia insaputa, quella che poi sarebbe diventata la mia vocazione di pittore. Avessi minimamente sospettato allora che proprio quelle architetture e quelle cattedrali sarebbero diventate i temi preferiti della mia pittura! Solo che alla simbologia che mi suggerivano da ragazzo a poco a poco vi ho sostituito le immagini e le emozioni che solo una loro dimensione umana può suggerire quale antitesi di “Grandeur et Misère”. Al contrario, nel dipingere i grandi “nudi” e le “figure”, alle immagini e alle emozioni ho sostituito i “simboli”, quasi a suggerire questa volta, un rapporto plastico tra idee di bellezza e idee di poesia che si richiamano ad una civiltà remota. Non ho voluto cioè soffermarmi all’apparenza esteriore bensì ho voluto cogliere l’essenza di un dato psicologico. Se, infatti, per un attimo immaginiamo di veder tutt’insieme quei “nudi” e quelle “figure” possono benissimo far ricordare i frontoni delle cattedrali romaniche a mo’ di allegorie: volti e corpi di pietra su cui c’è un’ombra di freddo che li salvaguarda dalla fragilità dei sentimenti umani e li consegna quali prototipi del nostro tempo ad un futuro remoto.
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