[…] il successivo rimescolamento delle carte culturali non passò invano neanche per Gentilini. Egli non ebbe molto da spartire con la nascente vessata questione nostrana (seppure ora di respiro europeo) tra figurativi e astratti, nei cui confronti si riservava una propria linea mediana – e le nuove fonti dell’arte sua le trovò a Parigi nel ’47, in una personale lettura del cubismo. Un primo frutto se n’ebbe nella “Piazza S. Pietro” del ’48-’49, dove le braccia ampie del colonnato sbattono e s’inarcano insofferenti, in attesa che la “regola” cubista, assai più fantastica invero che geometrica, le assesti su coordinate nuove. Ma il cubismo di Gentilini, pure rimasto da allora sua matrice formale, è ricco di tali implicazioni e contaminazioni da richiedere più di un chiarimento. Il nome di Chagall non v’è critico che non l’abbia speso; ma piuttosto che farne riferimento generale per il Gentilini degli ultimi venti anni giova limitarsi, per questi, agli anni intorno al ’50, e per Chagall a quella sua tangenza appunto cubista, in particolare tra l’11 e il ’14 […]. Gli è che se definizione vale tentare per il cubismo di Gentilini – e valga quanto ogni etichetta – è quella di “cubismo fantastico”, ciò che motiva senz’altra aggiunta sia la citazione di Chagall che il riferimento al suo momento formalmente più compromesso. Per la metafisica, citazione anch’essa ribadita, il riscontro più pertinente cade pure in questi anni tra lo scorcio dei quaranta e i primi cinquanta, quando la visione non ha limato ancora i suoi strumenti ultimi e li individua tuttavia, ed accoglie fecondamente i suggerimenti più diversi. Che sia riferimento di nuovo assai mediato è naturale, piegato ad una personalità che proprio in quel tempo veniva mettendosi più efficacemente a punto. Esclusa del tutto ogni componente dechirichiana (e Morandi è qui fuori discussione) resta la temperie metafisica di Carrà […]. Ma Gentilini ignora le rarefatte sospensioni in cui riverbera un’eco d’assoluto, il tempo in bilico tra realtà e memoria, e le sue architetture, i monumenti da questo momento proliferanti, misurano una poco arcana longevità con il chiacchiericcio di donnette al mercato, la ferraglia di vecchie Balilla, la cantilena querula del venditore ambulante. Non si vorrebbe insistere sull’intenzione ironico-demitizzante; dubito che Cattedrali, Pantheon e Battisteri, vengano recati al livello di una quotidianità frustrante, a detronizzare un’Italia retorica e turistica di antiche inutili glorie. Vero è forse il contrario, come il cicalare di serve e bottegai rimbalzi innaturalmente sui porticati in fuga, su cupole loggiati e campanili in un’ombra di spaesamento che giustifica in fine, o motiva più in profondità, la citazione metafisica. Certo, la ripetizione del tema è sintomatica di una mira che scavalca l’esito singolo, quasi a riproporre un itinerario monumentale su cui aliti tuttavia il respiro caldo della vita di ogni giorno – e costante resta una venatura d’ironia, e un intento pure di reportage: in un paese che da sconvolgimenti ancora recenti rifluiva ora in un’animazione di vita germinante, fantasiosa, di suonatori e banchetti, di acrobati sulle pubbliche piazze, di fiere addomesticate. Ma non va tralasciato un duplice aspetto di quelle architetture che resta alla fine prevalente: cresce e s’arricchisce in esse la fantasia, giovandosi appunto d’un fascino intrinseco di storia che dura quale che ne sia il puntuale, dialettizzante riscontro – e in esse si forma, soprattutto, il nuovo linguaggio di Gentilini. In un breve giro d’anni, assai breve se al ’53 il nuovo stile è in tutto definito, l’artista trasforma radicalmente il suo modo di dipingere – e in realtà reca al gradino più alto un linguaggio che non perde alcuna delle sue componenti fondamentali. […].
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