Gentilini. Un uomo dall’aspetto franco, come il suo nome, e dall’atteggiamento sereno, rassicurante.
Uno spirito olimpico che, nella varietà dei suoi colori, racchiude anche un aspetto intimo, riservato, meditativo. Così come sono le sue cattedrali, ampie e magnifiche, che talvolta arretrano dal primo piano per creare uno spazio vuoto in cui si muovono impercettibili pensieri o accadono piccoli eventi poetici della vita, la corsa di una bambina con il cerchio, una ragazza che si aggiusta i capelli o le biciclette appoggiate al basamento, mentre sul proscenio del quadro si svolgono banchetti, si mettono in mostra bancarelle o si esibiscono acrobati e suonatori ambulanti.
È in particolare nei ‘notturni’ che si coglie la vibrazione di queste architetture antiche, dei loro corpi marmorei che emergono, sintetizzati, nelle trine delle facciate. Nella loro articolazione spaziale si raccontano storie secolari, si percepisce un messaggio arcano, complice il silenzio e la pulsante solitudine della notte, dipinta con moderata modulazione tonale dei colori. Una corsa sfaccettata di angoli, illuminati e bui, ma sempre soffusi dalla luce rosata della luna e dalla materia sabbiosa della superficie del quadro.
Cosa c’è in quegli angoli scuri, in ombra dalla luna? Perché Gentilini traccia quelle prospettive così lunghe, quasi eccessive rispetto alla centralità della solare bellezza delle sue facciate? Dove vuole condurci l’artista, sul filo del disegno? Vuole forse farci arrivare all’ombra delle sue cattedrali, in uno spazio ampio ma appartato, segreto, dove pulsa l’amore, il sentimento, il gioco, il sogno, l’illusione. Uno spazio che talvolta prende il sopravvento sulla superficie compositiva, aprendo al sogno una realtà sospesa, metafisica. E forse non è un caso che le sue pitture si posino prevalentemente su fondi sabbiosi neri.
Ma non c’è solo questo. Mentre la prospettiva tradizionale accorcia le superfici affastellandone i particolari, Gentilini al contrario ne pulisce le pareti in fuga, tracciandone solo le linee portanti e abbreviandone in tal modo il tempo di lettura, per arrivare, rallentando il ritmo visivo, ad un vero e proprio silenzio delle forme, dove si crea la vera tridimensionalità del dipinto, concavità opposta e complementare al piano di evidenza delle facciate.
Una concavità scura, dove può liberarsi l’immaginazione, dove tutto può accadere, come avviene in teatro, e come lo stesso Gentilini sancisce emblematicamente nel piccolo dipinto Cattedrale con sedia, del 1962, vero momento teatrale in cui una sedia vuota, unico soggetto non simbolico e non astratto del quadro, è posta sul limitare tra la luce del proscenio e il buio del fondo al di là del bianchissimo muro, spoglio e in prospettiva quasi ribaltata, della Cattedrale.
In un artista che impernia il suo lavoro sulla linea e sulla bidimensionalità del tracciato, tanto da ribaltare sul piano, come negli affreschi degli Egizi, anche quel poco di necessaria prospettiva, constatare invece che la rappresentazione dei volumi c’è ed è concepita come complemento opposto alla narrazione, rende evidente l’intento, da parte sua, di equilibrare, con delicata sapienza, storia ed evocazione, e di tradurre tali momenti di lettura in blocchi compositivi, articolati tra loro e al tempo stesso indipendenti.
Sempre sul piano compositivo, un aspetto ulteriore svela due caratteristiche altrettanto contrapposte e complementari: la stressa bidimensionalità del tracciato, di per sé atemporale e onirica, analitica e descrittiva, in altre opere diventa invece scorrere del tempo, sequenzialità in movimento, come all’inizio le sbieche prospettive dei deserti viali alberati di Faenza degli anni Venti e Trenta, scandite visivamente dal binario dei tronchi, o come, già più astrattamente, i lunghi solchi paralleli degli argini del Tevere del 1947 o le fughe nell’acquerello Cantiere, databile 1949, o ancora come, molti anni dopo, nei Ponti di New York, eseguiti su commissione dalla rivista “Fortune” di Chicago. E se, nei Ponti, il gesto di Gentilini è ampio e, come quello di un violinista che striscia l’archetto sulle corde, attraversa più volte in orizzontale tutta la superficie, al contempo i rettangoli di colore o le linee verticali in sequenza ne animano il ritmo, restituendo l’impressione di un continuo movimento ondeggiante che si ferma solo in prospettiva frontale, come nell’acqua del fiume o nelle stelline sul cielo nero in Triboro Bridge, o i camion e la cupola verde sul fondo in Williamsburg Bridge. Particolare non casuale, infatti, che, proprio per la serie dei Ponti, Gentilini abbia prediletto il formato orizzontale, tranne che in un dipinto, e che abbia ulteriormente preferito comprendere l’interezza del soggetto per lungo piuttosto che in scorcio, visuale che ne avrebbe rallentato la lettura e mutato il significato (Washington Bridge (n. 1) e (n. 2)). Piegando al suo intento perfino una città verticale e frastornante come New York, Gentilini ne declina quindi il rumore, distendendolo nel parato visivo di trine impalpabili che subito si dissolvono nel nero assorbente del fondo, o, nella caligine chiara dei cieli, aprendo nuovamente quello spazio ‘morbido’ e soffuso che tanto abbraccia lo spettatore incantato.
Laura Turco Liveri
Testo per il catalogo della mostra Franco Gentilini nel centenario della nascita. Dipinti, tempere, disegni, opere grafiche 1934-1981, a cura di Giorgio, Laura e Marco Guastalla, Livorno, Guastalla Centro Arte, 20 novembre 2010-19 febbraio 2011, Livorno, Edizioni Graphis Arte, 2010