"Franco Gentilini" di A. Moravia (1952)    


Edizioni del Cavallino, Venezia
   
[…] Franco Gentilini introduce nella tradizione creata da Scipione a Roma una nota diversa e nuova. Quello che in Scipione era acuta e straziante consapevolezza, impotenza e spasimo, in Gentilini diventa ironia, gioco, trascrizione rustica e fantastica. Si sono fatti per Gentilini i nomi europei di Goya, Daumier, Ensor, Chagall. Indubbiamente apporti di questo genere ci sono stati e ci sono tuttora; ma piuttosto per affinità e per simpatia indiretta che per derivazione e filiazione. In realtà, di fronte a certi problemi, temperamenti simili reagiranno più o meno nello stesso modo. Gentilini, spinto come Scipione da un impulso originariamente narrativo, si è trovato di fronte a una realtà italiana ormai scontata sul piano di una rappresentazione seria e diretta, perché svuotata dei suoi antichi significati e non ancora animata dai nuovi. L’Italia, d’altra parte, non è la Russia di Chagall, non è un paese nuovo e mezzo vuoto con contadini, soldati, osterie, mendicanti, cavalli, belle ragazze, isbe, strademaestre e cieli orientali pieni di stelle; l’Italia è quasi un museo in cui i monumenti di una mezza dozzina di civiltà stanno l’uno contro l’altro, serrati e fitti e, tutti, ormai sconsacrati e morti. Ma la vita dell’Italia moderna si insinua e si propaga in questa foresta di monumenti con la forza dell’ignoranza e del candore naturale. Gentilini si è impadronito con studio attento e originale del segreto della quotidiana profanazione del museo italiano ad opera degli innumerevoli carrettini, venditori ambulanti, camion, coppie di innamorati, ragazzini, donnaccole, gatti, cani e insomma ogni sorta di cose e gente umili e vivaci. L’Italia, la Roma di Gentilini, con tutti quei battisteri, duomi, campanili, portici, cattedrali, palazzi servono da sfondo non più, come in De Chirico, a statue parlanti, a manichini metafisici, a presenze mitologiche, bensì a scenette di genere, a incontri paradossali, a incidenti ironici; e tuttavia, seppure in modo diverso, raggiungono gli effetti di una magia egualmente potente e allusiva. […]. 
Fedele alla lezione di Scipione, il colore di Gentilini attinge sempre a quella densità, profondità e modulazione che ogni studiosa considerazione della realtà necessariamente produce. Del resto, a riprova, si tratta sempre di paesaggi nient’affatto immaginari, e la precisione del riferimento topografico, in questo caso, è garanzia di rappresentazione veritiera ed oggettiva. Diremmo piuttosto che l’impulso a narrare in Gentilini sia posteriore e, insomma, secondario a quello di rappresentare e dipingere; esso si sovrappone a questo come complemento e arricchimento, quasi come inevitabile conclusione. 
Non vogliamo caricare la pittura di Gentilini di significati che quasi certamente essa non ha avuto nell’intenzione dell’autore. Questi significati che senza dubbio ci sono e sono in parte quelli che abbiamo cercato di definire, sono in certo modo involontari ed emanano dalla pittura di Gentilini come da ogni pittura vitale e complessa. […].