"Gentilini" di M. Valsecchi (1966)    


Edizioni d'Arte Fratelli Pozzo, Torino
   
[…] Ho detto raccontare, a ragion veduta. Perché la caratteristica prima di Gentilini è di concedersi a un narrare allusivo e pieno di sorprese, e tuttavia con la discrezione di non forzare né la pittura né la letteratura. Difatti Gentilini ha sempre il senso giusto della misura e avverte con pronta sensibilità il punto dove le mistioni si disturberebbero a vicenda. Voglio dire che, pur propenso com’è al racconto, il pittore riesce sempre a schivare, con destrezza e sottigliezza, la pania letteraria, cioè il vizio compiaciuto di abbellire il racconto e di perdere, nella misura di quell’abbellimento, la verità della pittura. Un racconto inteso allora come spessore di vita che si affolla dentro il quadro con le sue figure e i suoi oggetti, senza risuonare mai nei recitativi dell’illustrazione e anzi cercando una cadenza lenta e stringata, quasi un ritmo estatico, e infondendo una vitalità complessa e direi stregata a ogni cosa, che si dilata negli aloni dei significati cangianti, di cui leggiamo tuttavia i profili resi semplici come un dettato elementare. Teniamo ben fermo questo aspetto primario del dipingere di Gentilini e si capirà che non è solo un equilibrio distintivo, ma un accordo acquisito con infinita pazienza attraverso un’esperienza ormai trentennale. […] Così in chi sta a guardare si comunica un curioso senso di partecipazione: un’allegrezza immediata che si accende sul gusto misuratissimo delle invenzioni del pittore – invenzioni di immagini, invenzioni di colori – e finisce per intricarsi in una sottile inquietudine che sorge come una rete impalpabile eppure avvertibile sul fondo del godimento visivo. Forse è l’aspra secchezza dell’aria che mineralizza ogni figura, blocca i ritmi compositivi e rende allucinante ogni immagine a far sorgere dal fondo questo sentimento un po’ ossessivo, anche se l’avvìo è sempre sospinto da una disposizione ironica della mente, che non vuol dire per forza irridente, se può essere, come è, una difesa dall’incidersi troppo scoperto della commozione e della pietà. Perché alla fine di questo sottile sovrapporsi di sentimenti contrastanti, che Gentilini manovra con una finezza in cui non senti più alcun artificio, c’è proprio il senso più vivo della sua disposizione narrativa: il partecipare umano a una pena quotidiana attraverso il gioco spettacolare della realtà più usuale, tramite un’arguzia ingenua che brucia la retorica e lascia trasparire, spoglia alla sua essenza più significativa, ogni singola vicenda. […]