"Le chiese di Gentilinia" di D. Buzzati (1971)    


Ed. Litografica Internazionale, Milano
   
Sulla città di Gentilinia tanto è stato scritto, in Italia e all’estero, e da tanti e così illustri specialisti, che anche al più presuntuoso dovrebbe venire meno il coraggio di tornare sull’argomento.
Tuttavia, per quanto sembri strano, sussiste ancora un problema non risolto: il problema delle chiese.
Ma come? Diranno molti. Se le chiese, le cattedrali, i battisteri, le cappelle sono di Gentilini una delle cose più famose se non la più celebre di tutte? Proprio perché le chiese, le cattedrali, i battisteri, i santuari, le basiliche di Gentilini sono state finora, si può dire, l’argomento principe dei tanti illustri esegeti che hanno celebrato i meriti della singolare città.
È vero. Però il loro enigma non è stato finora tentato da alcuno. Sarà un problema banale, se volete, terra terra, ridicolmente gretto, in una contrada che è tutta poesia e sogno. Ma un problema è. Forse meno trascurabile di quanto finora si è creduto.
Il problema è il seguente. In una città squisita ma piccola, e abitata, a quanto risulta finora dai censimenti, da poche centinaia di abitanti, come mai sono state costruite tante chiese?
Seconda domanda: come mai queste cattedrali, basiliche, battisteri, anche nelle giornate più radiose, sono sempre ermeticamente chiuse? Come mai non si vede mai entrare e uscire la gente?
Sono per caso dei templi chiusi al culto? O i fedeli entrano ed escono attraverso pertugi clandestini che dall’esterno non si vedono? Oppure si tratta di un mistero recondito legato alla stessa esistenza di Gentilinia?
Chiedere direttamente spiegazioni all’inventore della città: potrebbe sembrare il sistema più semplice e sicuro. Ma non è vero. Una verità che stenta a entrare nella testa alla gente, (e anche a diversi specialisti), è che l’autore è la persona meno indicata a fornire spiegazioni, interpretazioni e commenti su un’opera di qualsiasi genere, sia libro, opera lirica, quadro, architettura o addirittura città, come nel nostro caso. Uno scrittore, mettiamo, si propone di stendere un trattato didascalico e, senza che lui se ne renda conto, gli viene fuori un poema lirico. Un pittore (di quelli moderni) si propone di fare un nudo di donna e sulla tela viene alla luce una montagna, o viceversa. Un architetto si propone di costruire un accogliente complesso condominiale e all’atto pratico compare un edificio carcerario.
Questo, grazie a Dio, è uno dei misteri dell’arte. Che il pubblico, cioè il lettore, il riguardante, l’ascoltatore, può trovare in un’opera dei significati e delle virtù che l’artista manco lontanamente si era sognati. E se l’artista nega, e dice che quei significati, quelle virtù non esistono, ha torto marcio lui. Una volta consegnata al mondo, un’opera d’arte appartiene al mondo e non più al creatore, al mondo che ha il diritto di catalogarla, giudicarla, interpretarla, analizzarla come più gli piace.
Cosicché andare a chiedere a Gentilini come mai le sue cattedrali sono sempre chiuse e non si vede mai entrare e uscire la gente, sarebbe una stupidata. Senza contare che, a quanto mi consta, Gentilini, e giustamente, non ama stare lì a discutere sui propri quadri, e soprattutto sulle cattedrali, di cui comincia ad essere sazio.
Ho pensato fosse molto più conveniente andare sul posto a vedere, a chiedere, a controllare: il che costituisce, da che mondo è mondo, la formula più vantaggiosa per lo scrupoloso cronista.
Sono andato dunque a Gentilinia, la quale sorge, com’è noto, non lontano da Pisa, ma il posto preciso non posso dirvelo perché fino troppa gente ormai ne conosce l’ubicazione segreta, e quotidianamente frotte di turisti vi convergono anche dai più lontani paesi, con notevole disturbo degli abitanti, e con un certo dispetto dell’inventore, il quale vorrebbe che la sua città se ne stesse placida, silenziosa e sottratta alle infamie del mondo in cui solitamente viviamo.
Era un giorno feriale, e per fortuna di turisti in giro se ne vedevano pochi, anzi pochissimi, grazie anche a una serie di scioperi nella zona circostante: delle ferrovie, delle linee automobilistiche, dei distributori di benzina, dei ristoranti, e perfino degli accattoni.
Anche la gente per strada era poca. Si sa, come ho detto sopra, che, secondo le statistiche ufficiali, gli abitanti di Gentilinia assommano a poche centinaia, esattamente a settecentocinquantasei (censimento dell’ottobre 1969). Popolazione tenuta intenzionalmente entro limiti esigui, appunto per garantire la pace della nobile cittadina, sottratta così alla febbre delle lotte concorrenziali.
Lasciai la macchina alla porta della città. Non è vero che la loro presenza sia vietata in forma rigorosa, ma non sono desiderate, questo è certo (a meno che non si tratti di qualche vecchio modello dalle classiche e nobili forme che oggi i fabbricanti disdegnano). E, a piedi, raggiunsi il centro, fermandomi appunto dinanzi a una delle cattedrali più belle, vagamente assomigliante alla cattedrale di Pisa.
Mi guardai intorno. Non un’anima viva. Finalmente, da un’antica angusta strada fiancheggiata da turriti e alquanto arcigni palazzi, sbucò, fischiettando discretamente “Il cuore è uno zingaro”, un giovanotto in bicicletta. Il quale, vedi il caso, si fermò proprio dinanzi al tempio, scese di bicicletta, appoggiò la bicicletta a uno sperone del tempio e si sedette su un gradino, al sole, continuando a fischiettare sottovoce.
Mi avvicinai e gli chiesi: “Scusi, signore, come mai le porte della chiesa sono tutte chiuse?” Lui interruppe la fischiatina, mi guardò con evidente stupore e rispose: “Per forza. Ma lei non lo sa che qui le chiese e i palazzi sono tutti di tela, o di carta, e che dietro non c’è niente?”
Io, pronto: “E allora voi dove vivete?”
“O bella, fece lui, anche noi siamo tutti di tela, o di carta, e dietro non c’è niente”.
Io, svelto, allungai una mano e lo afferrai per una spalla. Accidenti se quella era una spalla. Perfino troppo nerboruta e soda. Il giovanotto scoppiò a ridere, non si capiva se perché gli facevo il solletico o per la celia che mi aveva fatta. D’un balzo raggiunse il biciclo, balzò in sella, e via, chi si è visto si è visto.
Subentrò un grande silenzio. Nel quale però, a poco a poco, emerse un’eco fievole da chissà quale lontananza, come un remoto vocío. Aguzzando l’udito, cercai di identificarne il settore di provenienza. In questa direzione mi incamminai. Il vocio andò via via facendosi più distinto. Finché, uscito da un tortuoso vicolo, mi trovai di botto dinanzi all’origine delle emissioni sonore.
Ecco una bella piazza, limpida e ordinata, chiusa da una geniale scenografia di piccoli ma aristocratici palazzi, e in fondo una chiesa, che non aveva solennità da cattedrale, comunque stava parecchio sulle sue. E dinanzi alla chiesa, incuranti del sole che batteva senza riguardo, quattro uomini e tre donne, tutti circa sulla trentina, stavano banchettando lietamente a un desco imbandito a regola d’arte, perfino con un cane e un paio di gatti che stavano facendo la posta ai resti delle costate e dei polli allo spiedo. Nel vedere la mia faccia sbalordita, quello che sembrava il più autorevole dei sette mi invitò immediatamente a sedere, con una cordialità tanto calda e spontanea che non osai rifiutare, solleticato anche dall’appetitosissimo aspetto della imbandigione.
Regnava il buonumore, il vino era uno di quei Chianti tra la giovinezza e la prima maturità, con ancora l’asprezza dell’età verde, ma già nel pieno vigore dei muscoli. Non dico subito, perché mi sarebbe parso poco delicato, ma dopo neanche un quarto d’ora, non mi fu difficile toccare l’argomento che mi stava a cuore. E rimasi sorpreso da due cose: prima di tutto dall’assennatezza con cui uomini e donne presero la parola sul problema: secondo, che nessuno la pensava allo stesso modo.
Riferire per disteso la simpatica conversazione sarebbe qui fuori luogo, se non altro per motivi di spazio. Posso tuttavia riassumerla nei suoi termini più interessanti. Che non bastarono però, lo dico subito, per venire a capo della questione.
Tutti e sette, come del resto mi pareva ovvio, smentirono che le chiese, le cattedrali, i battisteri, eccetera, fossero di tela o di carta e che dietro non ci fosse niente. Macché. Erano di marmi e di pietre rare, anzi di primissima scelta. E garantivano di poter durare, diritti in piedi, per secoli e secoli.
Circa lo scopo, la natura e le funzioni di quegli edifici sacri invece i pareri differivano. Ne cito i più ragionevoli o singolari. Da notare che nessuno dei sette, in quelle chiese, c’era mai entrato, e dell’interno non sapeva fare alcuna descrizione.
Le chiese erano tante – disse uno – perché le chiese giovavano alla bellezza della città, la quale, aggiunse, era una delle più belle d’Italia. Nelle chiese non si poteva entrare e le porte erano sempre chiuse, tale la spiegazione di una delle donne, perché l’interno non esisteva. In una città di bravi cristiani come quella – suo marito le andò di rincalzo – che le chiese avessero un interno non servivano a niente. Che peccati si commettevano in quella savia città che ci fosse bisogno di confessare? E l’efficacia delle preghiere differiva forse se venivano fatte all’aperto piuttosto che al chiuso, dinanzi a un altare piuttosto che a casa propria?
In quanto ai battisteri – ne esisteva più d’uno – nessuno dei sette aveva la più lontana idea della loro utilità. Tutti gli abitanti di Gentilinia comparivano nella città già battezzati, anche se si trattava di fantolini. E nessuno ricordava di avere assistito a un rito battesimale.
Alla mia obiezione che, se esistevano delle mura esterne, doveva pur esistere uno spazio interno, nessuno dei sette dapprima seppe, o volle, rispondermi, come fosse un concetto superiore ai loro intelletti. Soltanto alla fine, il più giovane della compagnia, mi suggerì una soluzione, secondo lui accettabilissima: che, in una città di così brava gente, l’interno eventuale delle chiese era così pieno zeppo di Dio che non poteva restare posto neppure per un solo fedele, magro che fosse.
Di preti, comunque, nessuno dei sette ne conosceva. Un chierichetto era stato visto anni prima ciondolare dinanzi a una insigne basilica. Ma probabilmente si trattava di un bambino in vena di burle.
La presenza di tanti templi era tenuta in gran conto dagli abitanti, la cui coscienza cattolica romana era antica e profonda, prova ne sia l’uso frequente di sode bestemmie, come potei io stesso constatare durante l’asciolvere.
Nel corso di parecchi anni consecutivi, le costruzioni di chiese si erano avvicendate con ritmo serrato, tra la soddisfazione generale. Da qualche tempo non si vedevano però nuovi cantieri. La gente non se ne doleva eccessivamente, stimando che la città fosse già onorata abbastanza.
Circa il fondatore della città, fu un coro di calorosissimi elogi. Egli assicurava a tutti, abitazioni comode e pulite, un vitto di primo ordine, anche ai più umili, e un bel tempo quasi mai interrotto per tutta la durata dell’anno. E non un caso di decesso, neppure per causa fortuita, da quando era stata creata la città.
Così chiacchierando amabilmente, si era fatto tardi. Le ombre cominciavano a scendere e confesso che il venticello della sera mi faceva battere i denti.
Salutai, ringraziando, gli amici. Raggiunsi fuori porta la macchina. Ed ora eccomi di nuovo tra voi, sapendone, devo ammetterlo, ben poco più di prima.