"Franco Gentilini" di A. Bosquet (1979)    


Edizioni Bora, Bologna
   
[…] egli sa conquistarmi segretamente, senza dubbio, come nessun altro pittore dopo Seurat. Questo perenne piacere, che ha luogo in me nella serenità, nulla m’impedisce di analizzarlo, perché non rischia di svanire di fronte agli attacchi del ragionamento. Non ho bisogno di chiedermi qual’è stata l’evoluzione di quest’opera. Quand’anche avesse radici palesabili, essa è precisamente una delle rare che sfuggono all’influenza delle servitù: non è affatto necessario trovarle una data, né una latitudine, né un clima, tanto quest’opera sa liberarsi dai propri limiti. Essa mi fa sentire spaesato, anche quando conosco il paese – se non la città, o addirittura il quartiere – che Gentilini interpreta. Io contemplo, per esempio, una certa chiesa una certa fortezza che vi si incontra; cento volte sono entrato, a Roma o a Firenze, sotto quel portico, e dieci volte ho passeggiato sotto quei bastioni. Li ritrovo tutti cambiati e, naturalmente, attraverso il medesimo procedimento, ne vengo anch’io non poco mutato. Che cosa è avvenuto? La realtà si è sbarazzata della propria pesantezza e della propria identità tirannica. Si è fatta aerea, volatile, pronta a sùbito dondolarsi sull’altalena nei sobborghi del sogno e della favola. Ne concludo, per il luoghi familiari, che Gentilini me li rende probabili – quindi improbabili, mentre avevo tendenza a troppo presto riconoscerli. In altri pittori, vi è semplificazione o stilizzazione; io credo che in lui ci sia poetizzazione senza che egli debba ricorrere a una qualsiasi metamorfosi abusiva. Egli vede e fa vedere in modo diverso soprattutto innocente ciò che finora si è appesantito per troppe evidenze. Togliere alla Piazza San Pietro una parte del colonnato è darle una specie di dolce magia, dove l’ebbrezza consiste nel rimanere se stesso e, come per un sottile stratagemma, nel suggerire una dimensione invisibile. 
Osservo ora alcuni oggetti: non la tradizionale natura morta, ma uno spazio dove vivono – e respirano – senza troppo indicarcelo, un armadio, uno sgabello, una bottiglia, la metà di una mela, un’automobile. Sono usuali o, al contrario, dotati di una personalità imprevista? Anche in questo caso mi sento il proprietario di tutte queste cose, a portata degli occhi e delle mani; un certo pudore mi trattiene dall’assimilarli ad altri oggetti analoghi; il fatto è che, precisamente, senza pretendere a una trasformazione radicale o incongrua, essi non possono essere paragonati a nessuno dei loro simili. […] 
Anche i suoi animali hanno il loro incanto irresistibile e il loro enigma. Perché un gatto dovrebbe essere banalmente un gatto? Esso è egualmente qualche altra creatura. In un certo senso – noi lo sappiamo bene – esso è anche, per forza maggiore, un antenato bizzarro, un prete buddista, un personaggio che aspetta di vendicarsi dei piani di cui lo si crede capace. Gentilini si limita a sottrargli alcuni attributi, a semplificarne la figura, a fargli chinare lo sguardo, a tagliargli i baffi, dando di questo caro animale una nuova definizione profonda. […] 
Giungo infine, con affetto sempre rinnovato, ai suoi uomini e alle sue donne. Essi sono di oggi e di sempre: il XX secolo di Gentilini non si può concepire senza la presenza etrusca o romanica. Nessuno è in grado, secondo una lezione che egli non si dà la pena di esprimere, di chiudersi nel proprio tempo, come nessuno è in grado di liberarsene. I nostri contemporanei sono dell’altro ieri e del dopodomani, e il tempo della creazione non è quello dell’orologio: chi meglio di Gentilini, che vive in un campanile, lo sa e ne ha la prova ogni giorno? […]