"Magie de Gentilini" di R. Carrieri (1970)    


in "XXe siècle", a. XXXII, n. 34, Parigi, giugno, pp. 113-123
   
Più gli giro intorno e più lo trovo ampio. Una statura solida, con incurvature incrociate al punto giusto come i profili d’un contrabbasso in riposo. La tranquillità che mi trasmette la presenza di Gentilini è di natura classica: un portico, un acquedotto, una nave all’ancora, una quercia. Appoggiato alla sua massa, potrei leggere, dal primo all’ultimo verso, la Gerusalemme liberata. 
L’ombra ch’egli proietta è asciutta. Dentro quest’ombra benefattrice non allignano funghi, né muffe, né spugne. La natura ha assorbito millenni di silenzio. Nessuna foglia si muove. Ho in tasca un merlo meccanico che imita a perfezione un verso latino. Se il merlo fosse vero, Gentilini fuggirebbe dalla sua ombra come il cane del dottor Faust. 
Potrei rovistare fra le pietre delle sue città morte e rintracciare qualche vecchia caffettiera napoletana, coppie di forchette e cucchiai, una graticola, un coltellaccio per aprire le ostriche o la luna. Rovine di ieri che, a contatto dei millenni accumulati dietro le sue spalle, assumono quell’aspetto remoto e metafisico che vediamo nei suoi dipinti. Al contrario della sua pittura, tutta lavorata a piani mobili, intercapedini, corridoi, gallerie e paraventi, Gentilini è una costruzione liscia, con una sola faccia. Una faccia senza nascondigli, imperturbabile nella sua soffice impassibilità. Di articolazione lenta, attenta, laboriosa come quella d’un orologiaio che si accinga a togliere un granello di polvere dall’abisso macchinoso d’un cronometro. 
Sul palcoscenico, un prestigiatore può trasformare un ombrello in colomba. Gli oggetti usati dagli illusionisti provengono dalle medesime fabbriche. Vi sono cerchi che entrano uno nell’altro, bauli nei quali vengono chiuse le donne che devono essere attraversate da sciabole, fiaschi con dentro una gallina accovacciata. Nelle code del frac del prestigiatore c’è un intero deposito: bandiere, kimoni, sciarpe, sveglie, pugnali, ombrellini. È più misterioso modificare le cose già esistenti per conto loro nella normalità degli aspetti consueti. Le quattro mele riunite in una fruttiera di Cézanne sono state colte in un frutteto che produce ogni anno milioni di mele: però quelle quattro mele non appartengono più alla Natura, ma alla Pittura. Come le patate di Van Gogh. Come i fiori stellari nei giardini notturni di Klee. Come i pesci di Braque. Come i tori di Picasso. Come le arance e i coralli di Matisse. 
Ha ragione Picasso: “Un quadro non è mai pensato e deciso anticipatamente, mentre viene composto segue il mutamento del pensiero; quando è finito, continua a cambiare, secondo i sentimenti di chi lo guarda. Un quadro vive una propria vita, come una persona; subisce i mutamenti cui la vita quotidiana ci sottopone. E questo è naturale perché un quadro vive soltanto attraverso la persona che lo guarda”. 
Le più attente letture dei quadri di Gentilini sono avvenute attraverso gli sguardi fertili dei poeti. Il pittore dipinge un oggetto e noi ne riceviamo quasi sempre un altro.
Una bicicletta di Gentilini, poggiata a un angolo, smette di essere un normale mezzo di locomozione, come se, a contatto di un altro spazio, si fosse adeguata a un mutamento di rapporti e strutture. Una trappola asimmetrica come una macchina. Senza la partecipazione di questa macchina, il paesaggio circostante sarebbe un altro: la trappola graffita nel vuoto della piazzetta potrebbe spaventare un passante sensibile. Una bicicletta, una cattedrale, un ponte di New York, il fornello del venditore di castagne, una macchina per scrivere, due forchette incrociate, un giardino, la prostituta in attesa accanto a un fanale, un cocomero tagliato in due, la luna rossa d’un semaforo, una lampada a spirito, un’automobile con la cappotta a soffietto, un battistero gremito di colonne come una dentiera solitaria nel plenilunio, una gratella con due pesci carbonizzati, tutto ciò che qui ho elencato e una folla di altre cose, oggetti e macchine, luoghi, sembianze, arnesi e animali, tutto si trasforma nelle dimensioni e forme di Gentilini, provocando da parte nostra una continua collaborazione. Percorrere le sue superfici petrose, andare da un angolo all’altro dei suoi piani inclinati dove sono disposti, a somiglianza di posate e piatti, oggetti d’uso quotidiano, è già l’inizio d’un’avventura ottica. 
Bisogna riformare la nostra visione per seguire le insinuazioni del suo disegno, simile a un giuoco di strabico?
Il contorno delle cose rappresentate, qualunque sia la loro disposizione, e anche se le distanze fra gli oggetti sono minime, rimane saldissimo. Incontrollabili canicole hanno prosciugato la materia pittorica di Gentilini. Essa rivela, al tatto, un’aridità di sabbia. I colori vi sono radicati come i minerali allo stato puro. Per raggiungere un oggetto, bisogna attraversare un piccolo deserto. Raggiuntolo, non lo possiamo spostare: ogni forma ha una radice che si ramifica in profondità; i piani che reggono quegli oggetti sono la superficie di multipli spessori creati a secco. È più facile smontare un motore che una natura morta di Gentilini. 
Le sue prospettive sono irregolari, per permettere svariate combinazioni di oggetti associati. Il suo repertorio è limitato agli arnesi domestici: punteruoli, forbici, cavatappi, lunghi chiodi dalla testa quadra per stendere corde, bricchi, ferri da stiro, gomitoli di lana, tazze, caraffe, chiavi inglesi, uova di legno per rammendo. Tutte cose di non grande conto che, se viste su di un tavolo di cucina, nessuno farebbe entrare in un quadro. Invece Gentilini tratta questi umili oggetti come strumenti d’un’operazione magica. Li depone per profili. Traccia la posizione che devono occupare. Divide gli spazi come se, invece d’un bicchiere, dovesse costruire una torre. Vi è un ferro da stiro che trasporta la sua ombra. La parte in luce d’una bilia si riflette su di una zuppiera come la luna sul Battistero di Pisa. Un mezzo limone è diviso in luminosi raggi uguali. Di alcuni oggetti esiste un’impronta, di altri soltanto l’ombra. Tutte le ombre conducono al rovescio delle forme, alla loro struttura spettrale insabbiata in una macchia più densa. A questo punto devo distogliere gli occhi per non sentirmi complice nel dispositivo della scacchiera cabalistica di Gentilini. 
Complicità. Il termine è ambiguo per giustificare la collaborazione dello spettatore di fronte a un’opera d’arte e agli elementi che la compongono. Lo stabilisce un contatto positivo, d’una certa intesa, esige gradi d’attrazione e d’interesse; in mancanza di questi si rimane esclusi. Una pittura può essere come una porta chiusa. Potete battere quanto volete, nessuno risponderà. Non che il padrone di casa sia assente: sta dietro la porta, in ascolto. Se non apre, è perché non si fida di voi. Rifiuta di ricevervi. Lo stesso accade nei rapporti con i pittori e i loro quadri. La mia lunga frequentazione delle opere di Gentilini mi ha consentito di aprire alcune porte chiuse. Per entrare non mi occorrono chiavi, giro semplicemente una maniglia, e raggiungo le camere dove sono apparecchiate le tavole: non so bene se per festeggiare qualcuno o per evocare le anime dei morti come nelle sedute spiritiche. La distribuzione delle vivande è strettamente geometrica. Un fisico potrebbe spiegarci le forze e gli angoli di un bicchiere, o d’una caraffa, perché un corpo solido proietta sulla tovaglia un’ombra i cui orli sono alterati. Talvolta i banchettanti hanno le stesse linee dei panneggi degli apostoli, nei mosaici bizantini. E i piatti nel loro freddo biancore contengono aringhe d’oro vecchio. Le stanze continuano nei sotterranei come nelle pellicole poliziesche. Attraverso una botola, usciamo in una piazza in piena notte. Un panorama di cassetti a segreto. Le persone che incontriamo sono sonnambuli che non riescono a evadere da una complicata rete di colonne. Il gran vuoto della piazza dal lastrico intarsiato genera in noi una certa angoscia. Quest’angoscia aumenta allorché vediamo, sopra un muro di cinta, la forma d’una donna nuda che porta, sospeso ad altezza del ventre, un cartone che si usa nelle fiere per il tiro a segno. Un’altra donna, nera come l’asfalto, appollaiata su altissimi tacchi, avanza seguendo le ripetute curve d’un portico. Le pietre s’accumulano come i mobili nei sogni: cupole, campanili, conventi, abbazie. Il leone di marmo lascia il suo plinto e attraversa la strada. Si vedono luci verdi ai quadrivi; una bicicletta con ruote ovali si mantiene in bilico: sul sellino a forma di cuore, non c’è nessuno. Una notte che non finisce più. Con un colpo di rivoltella, si potrebbe far crollare la luna.