"Un monde parallèle au monde" di A. Jouffroy (1980)    


in Gentilini, "XXe siècle", a. XLII, n. 55, Parigi, marzo, pp. 5-14
   
Di caffè in caffè, così va la pittura. Di piazza in piazza, e di città in città. La pittura passeggia, viaggia. Fa spostare chi dipinge perché egli deve nutrirsi senza sosta, di cose e di gente da vedere, da guardare, da contemplare in tutti i modi, in ogni circostanza e dappertutto. I musei, i conservatori del visibile, forse non sono, nell’itinerario di un pittore, che quadrivi, stazioni di smistamento nell’universo innumerevole e senza frontiere delle “cose da vedere”, che non sono tutte “cose viste”. 
Gentilini, pittore italiano, non fa eccezione alla regola. Come il suo predecessore De Chirico, non ha smesso di viaggiare: da Faenza a Bologna, da Bologna a Venezia, da Venezia a Parigi, da Parigi a Roma e da Roma a Milano. […] Gentilini ha trasformato l’Italia e la Francia in una specie di gigantesco atelier […]. Pittura-passeggiata, la pittura di Gentilini ci informa, a quanto pare, sul teatro dei nostri spostamenti quotidiani: noi la guardiamo come, d’estate, ci mettiamo alla finestra. Gentilini non è un pittore sonnambulo. Passeggia con gli occhi aperti di notte come di giorno. Ci sia la luna o il sole, la luce che rischiara il mondo al suo sguardo non è mai quella, terrificante, delle iscrizioni enigmatiche e delle ombre metafisiche. Non c’è altro mistero, per Gentilini, se non quello della vita stessa. Delle cose della vita quotidiana. E quando dico “mistero”, esagero un poco. La pittura non è, per Gentilini, un luogo di una interrogazione sul destino. Direi pure che gli permette di dimenticare il destino, di non dar importanza alla morte, di ignorarne il significato. Ama troppo le belle ragazze, i begli oggetti, le belle case, le belle chiese, per trasformare tutte queste creature e cose belle in interrogazioni filosofiche. […] 
Tuttavia, questa pittura è nata dalla guerra. Ha visto la miseria, l’angoscia e la morte. I quadri che Gentilini ha dipinto all’inizio degli anni Cinquanta sono come irrigiditi, intirizziti dal freddo, dall’attesa. I colori ne erano assenti. Il grigio, il nero, il bianco, un po’ di polvere, un po’ di terra, ed è tutto. Qualcosa di glaciale era passato da quelle parti. Gentilini aveva dovuto ricevere uno choc. Gli avevano distrutto il mondo della sua adolescenza, l’incoscienza della sua gioventù. Ma bisognava continuare a vivere. La guerra trasforma la città in periferia. Anche i ricchi hanno l’aspetto povero. Rasentano i muri. Tutto fluisce nel provvisorio. Questo doveva inquietare Gentilini, che possiede uno spirito pacifista. Se la guerra fosse divertente, egli sarebbe un guerriero. Ma essa non lo è più. Perciò Gentilini l’ha allontanata dal suo mondo. Ne ha cercato la spiegazione dai suoi amici poeti, che gliene hanno dato alcune folli. Ha ascoltato i loro aneddoti. Ha riflettuto su ciò che gli hanno raccontato. Ed ha dipinto con quel suo stato d’animo: quello di un racconto poetico su ciò che accade nella strada. […] Il non-senso delle cose non genera in lui angoscia. Egli nuota nel non-senso come in una piscina. Sarebbe capace di mutare la più grande tragedia in una poesia per bambini. Gentilini si serve della pittura come altri della chitarra, della fisarmonica. Con un’idea di ballo popolare in mente. Come se la vita quotidiana fosse una festa rimandata senza sosta a domani. […].