Roma, dicembre
“Se tutti dipingessero come Gentilini”, diceva Cesare Zavattini, “sarebbe soffocante, rovinoso, oltraggioso. Sparerei. Invece c’è solo Gentilini e allora sono amabile, civile, comprensivo e miagolo come un certo gatto davanti a una chiesa”.
Pochi pittori hanno meritato una così grande attenzione da parte di scrittori e poeti. Franco Gentilini piaceva soprattutto ai letterati, perché la sua pittura provoca il piacere di parlare.di lui hanno scritto tutti: da Piovene a Moravia, da Ungaretti a Pasolini, da Palazzeschi a Buzzati. Alla Galleria Le Point di Roma espongono, due anni e mezzo dopo la morte, alcune tra le opere più significative e, come rilevava Aglauco Casadio, “nei suoi dipinti la rievocazione e l’incanto sono talmente intensi che tra quelle immagini ci si possono aspettare gli incontri più straordinari”.
Ma chi era il Gentilini uomo, quell’unico figlio maschio nato da un calzolaio romagnolo a Faenza nel lontano 1909? E come si conciliava in lui, tanto amabile e metodico, il mito dell’artista che spesso, per essere ritenuto un genio, doveva dar segni sregolatezza? Ne parliamo con Luciana Gentilini, la moglie. “Sì, la moglie e non la vedova”, ci tiene a puntualizzare, “perché mio marito è e rimarrà sempre vivo in me e in tutti”.
“ERA METODICO”
-Chi era dunque Franco Gentilini?
“Un uomo straordinario. Chi ha descritto la sua pittura non si è mai limitato alle qualità artistiche, ma ha quasi sempre fatto delle notazioni su quelle umane. Non si atteggiava e non era un “pittore maledetto”. Se gli domandavano come si trovasse in un mondo come questo rispondeva: “il bello e il buono esistono sempre, basta saperli trovare”.
“Sì, era molto metodico. Ogni giorno lasciava lo studio alle tredici, e alle tredici e dieci sentivo il rumore della chiave nella serratura della porta. Per arrivare percorreva la stessa strada in cui aveva abitato Raffaello ed è una circostanza singolare che sul pianerottolo di questa casa, mentre lui era ancora in vita, hanno scoperto alcuni affreschi della scuola di Raffaello”.
-La sua, com’è logico, è una dichiarazione d’amore. Tra le pieghe del discorso affiora persino un riferimento a Raffaello, ma c’è chi afferma che lei non capisse la pittura di suo marito.
“non mi offende questa osservazione. Una moglie non deve capire la pittura del marito, la deve amare, ci deve credere e trasmetterla agli altri. A me basta che la capiscano gli altri, tutti gli altri”.
-Quando ha conosciuto suo marito?
“Io avevo dieci anni quando lui sposò la cugina di mia madre, che fu la sua prima moglie. Ricordo che a quell’epoca vivemmo un periodo denso di curiosità. La cugina di mia madre era figlia di un medico di Pisa e in provincia faceva scalpore il matrimonio con un pittore bohémien, per di più squattrinato. Noi parenti attendevamo con ansia l’arrivo di Gentilini. Si diceva: “Dev’essere bellissimo, una specie di principe azzurro”. Ci ritrovammo invece davanti a uno spilungone con i capelli rossi, i baffi color tabacco, una figura che non rientrava insomma nei canoni della bellezza classica. Ma ispirò subito simpatia, accese la mia fantasia”.
-Se ne innamorò a quel tempo?
“No, m’innamorai della sua pittura. Sono diventata grande in mezzo alla sua pittura. Venivo spesso ospite della sua prima moglie a Roma, ero molto amica della figlia Orsola, ma non nutrivo assolutamente altro che un sentimento di rispetto nei suoi confronti. Mi piacevano i suoi racconti della giovinezza.
“Lui era nato con la vocazione della pittura, gli sarebbe piaciuto frequentare una scuola. I suoi lo mandarono a lavorare come decoratore in una fabbrica di ceramiche, ma alla sera studiava disegno alla “Minardi” e lì ha conseguito il suo unico titolo di studio. Per quarant’anni ha insegnato all’Accademia, ma quella cattedra l’ha ottenuta esclusivamente per meriti artistici”,
¬- Ma quando è nata la vostra storia? Le fece una dichiarazione?
“È nata alcuni anni dopo che era rimasto vedovo. No, nessuna dichiarazione. Fondamentalmente Gentilini era un timido. Alle volte basta uno sguardo o una stretta di mano più prolungata. Ma fu una cosa naturale, quasi auspicata anche da sua figlia Orsola. Tra di noi c’erano vent’anni di differenza, però spesso mi capitava di pensare che li avevo io in più rispetto a lui”.
“SI FINGEVA MALATO”
-Come le piacerebbe che fosse ricordato suo marito?
“Con un articolo di Piero Chiara che diceva: “L’ottimismo trova conferma non soltanto nel suo mondo poetico, ma anche nel suo modo di affrontare l’esistenza. Ha avuto , come uomo, le principali disgrazie che possono segnare una vita, intercalate alle principali fortune. Tra le due sorti, la buona e la cattiva, si è assiso, arbitro imparziale, mantenendo la fronte serena e l’animo tranquillo”.
- Perché Chiara parla di disgrazie?
“Gentilini ha avuto inizi molto difficili, ha fatto letteralmente la fame. Quando giravamo per Roma, ricordo che mi indicava decine e decine di luoghi dicendo: “Qui ho avuto lo studio”. In giorno gli chiesi: “Ma scusa? Quanti studi hai avuto?”. E lui mi spiegò: “Quasi sempre, dopo il primo mese caricavo le mie poche cose, con cavalletto e colori, su un carrettino e me ne andavo perché mi sfrattavano.” Ogni tanto trovava il proprietario di una pensione più comprensivo di altri, perché capiva la situazione d’indigenza, quando non aveva da mangiare, infatti, Gentilini si metteva a letto, fingendo di star male e risuscitava a nuova vita quando il proprietario della pensione arrivava con un piatto di spaghetti. Per mesi, in un altro periodo, è vissuto di cappuccini e brioche perché il barista era l’unico che accettava di fargli credito.”
- Lei ha sposato Franco Gentilini quando ormai il successo gli aveva arriso. Che cosa significa, e non soltanto sul piano sentimentale, diventare la vedova di un grande pittore?
“Per me l’aspetto più doloroso è sentire l’assenza di un grande uomo. Prima mi chiedeva chi era Gentilini. l’ha capito bene Raffaele Carrieri quando scriveva: “La tranquillità chi mi trasmette Gentilini con la sua presenza è di natura classica: un portico, un acquedotto, un bastimento all’ancora, una quercia. Poggiato alla sua mole potrei leggere da cima a fondo senza alcuna interruzione la Gerusalemme liberata”. Ecco, a me è mancata all’improvviso questa quercia, con il suo buonumore, la sua allegria, il suo semplice ottimismo.
“Ma forse la sua domanda era un’altra. Quando muore un grande pittore si scatenano mille interessi non solo artistici, ma anche commerciali. C’è un proliferare di falsi, di abusi delle riproduzioni. Tutte cose che bisogna perseguire con estrema fermezza. Una moglie è persino obbligata a cambiare la personalità per difendere la memoria dell’artista e difendersi: io sono mite di carattere, ho imparato a diventare dura.
“NON HO VENDUTO”
“Ma il lato più triste è un altro. Gentilini non era ancora sepolto e mi piovevano richieste da ogni parte: “Vendi i suoi quadri”. Io non ho venduto, ma compro i suoi quadri, anche se purtroppo non si trova molto sul mercato. Chi ha i suoi quadri, li tiene, perché li ama.
“C’è anche un lato consolante, però. Ricordo un episodio. Un anno fa a Parigi, uscita in lacrime da quello che era il suo studio, perché i ricordi si erano fatti troppo pungenti, mi fermai a un bar. Tenevo in mano una sua monografia. Un tassista bloccò di colpo i freni della sua auto con i passeggeri a bordo. Si avvicinò a me di corsa e chiese: “Dove ha trovato questo libro di Gentilini? perché io l’adoro, è il mio pittore preferito”.
“Questi episodi mi spingono ad andare avanti, a organizzare mostre, pubbliche relazioni, a ordinare il catalogo generale delle sue opere. Un artista così non lo si può far morire. Adesso capisce perché non voglio essere chiamata vedova?”.
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