Tanto è stato detto e scritto su Franco Gentilini.
In questa mostra, contenuta in venti dipinti e un discreto corpus di disegni realizzati tra il 1928 e il 1981 - anno della sua morte - l’artista appare ben rappresentato in tutto l’excursus stilistico, dall’iniziale autoritratto, a 19 anni, e dalla tavoletta del Louvre dipinta durante il primo viaggio a Parigi, fino all’Autoritratto del 1981, in ideale coppia con il coevo Autoritratto, sua ultima opera, commissionatogli dagli Uffizi ed ivi conservato.
Un percorso articolato in numerosi passaggi, in cui Gentilini, pur introiettando tanti stili dell’arte antica e moderna - come ogni artista nel periodo della propria formazione - rimane sempre fedele a se stesso, ravvisando scelte di soggetti, soluzioni formali e andamenti visivi che tornano, seppur mutati, lungo tutto l’arco del suo lavoro.
Nelle nature morte del periodo faentino, come il "Vaso con viole", la "Natura morta con uva", del 1929, e il "Vaso con margherite", del 1931, attraverso lo studio della luce, già oggetto di indagine tra i pittori faentini e la pratica en plein air con il pittore Ortolani, Gentilini illumina dall’interno gli oggetti e restituisce colori e volumi che sulla superficie del quadro si articolano in spazialità trasversali, oppure notevolmente scorciate, che coinvolgono l’osservatore da protagonista nella scena.
Il successivo trasferimento dell’artista a Roma è rappresentato dall’"Autoritratto" del 1945, proprio nelle stesure di questo dipinto si ricostruiscono i passaggi intermedi della ricerca degli anni precedenti.
Il dipinto nasce dopo alcune fasi dedicate a definire un’impronta ideologica e costruttiva delle immagini, fasi che passano, negli anni Trenta, attraverso la stilizzazione delle forme ispirata al Novecento e l’approfondimento tonale ispirato al Primordialismo plastico (in quegli anni frequenta Capogrossi e Cagli) e alla nascente Scuola Romana. Soprattutto lo studio di Piero della Francesca allontana il giovane pittore da ogni referenzialità concreta con il soggetto, a favore di un classico nitore e dei rapporti geometrici tra le forme. Gentilini perde ogni interesse descrittivo del soggetto e costruisce anche la composizione dall’interno, rendendo il quadro pura pittura.
Apre il segno nella deformazione espressionistica di volti e forme, rende autonoma la pennellata e conferisce all’andamento compositivo ritmicità cromatica ed emozione, pur non perdendo mai, anzi affinandola, la capacità analitica del ritratto. Penetrando nelle pennellate serpeggianti di questo "Autoritratto", e paragonandolo ai dipinti precedenti, si comprende quanto di tale percorso sia ormai compiuto e come tale dipinto sia uno spartiacque rispetto alla pittura successiva.
Analogo discorso si può fare per i disegni. Il processo stilistico informa fin dagli anni Trenta anche le opere su carta, dove tuttavia resiste un tratto più realistico e narrativo, eppure veloce, puntuale e sintetico, di osservazione delle fattezze fisiche e psicologiche. Nei ritratti che Gentilini disegna di amici letterati e personaggi della cultura, si percepisce un rapporto dialogico del pittore con il soggetto, che, come tale, viene rappresentato proprio nel momento della sua complice risposta. Un percorso a parte è quello, invece, dei ritratti della prima moglie Stefania, sempre disegnata, con tenera sensibilità, nei gesti che ne caratterizzano la vita e la maternità.
In questi anni, il tratto del disegno si rende visibile nei dipinti, per la descrizione di particolari minuti ma in realtà nella duplicazione del livello di lettura del racconto. È un tratto vibrante di luce e di spessore, antagonista alla pennellata libera e tonalmente stratificata, in un connubio che si consoliderà nel tempo. Sul filo del disegno, e sia nel disegno che in pittura, Gentilini scardina progressivamente la prospettiva tradizionale, contraddicendo i canoni spaziali consueti e muovendosi sulla superficie dipinta con libertà chagalliana e già metafisica, come nel grande acquerello "Piazza del Popolo", 1949.
Negli anni Cinquanta il tratto costruisce architettonicamente anche la figura e gli oggetti, trattandoli al pari di chiese e monumenti, che appaiono sospesi su molteplici piani e scorci apparentemente incongrui: prospettive ribaltate di un’ulteriore dimensione che conferisce alla scena, e alla storia evocata, uno status di perenne e sognante poesia. E piccoli bozzetti come "Giocatori di pallacanestro" e quello per "Cattedrale", del 1955, fino ai paesaggi di Toledo e alla "Puerta del Sol", 1957, concentrano come nell’intimità di un diario, tutte le istanze stilistiche di questo periodo.
È nei primi anni Cinquanta che compaiono, prima a zone, poi su tutta la superficie, i fondi sabbiati. Finora Gentilini aveva stratificato le pennellate e sovrapposto i toni: perché ora sente l’esigenza di aggiungere corpo al fondo pittorico e per di più con un medium estraneo come la sabbia, e perché risulterà essere la scelta definitiva per i suoi dipinti?
La sabbia dà corpo alle forme e stigmatizza la figurazione come se fosse tracciata su un muro. La sfaccettatura dei granelli di silice rifrange la luce e i molteplici strati di colore tonale. Esempio ne è il "Paesaggio di Toledo", 1957, il cui fondo, variamente consistente, rende differenziato il cielo e preziosa la trina bianca che ne ricama la città.
Come negli anni faentini la luce illuminava dall’interno gli oggetti, così ora la sabbia di fondo dà corpo alle forme, incidendo segni e contorni. Luce, colore e linea danno forma a blocchi geometrici che ritmicamente scandiscono la composizione, nel gioco tra frontalità e lunga fuga prospettica, rendendo paradossalmente astratti dipinti come "Bayonne Bridge" e "Tavolo da lavoro", 1959.
Ugualmente, all’ombra delle sue Cattedrali, sulle pareti in fuga sono assenti finestre e orpelli, in modo da accelerare il tempo di lettura e rallentare al girare dell’angolo più oscuro, dove si crea la vera tridimensionalità del dipinto. Concavità opposta e complementare al piano delle facciate e, al contempo, spazio appartato e vuoto dove pulsa l’amore, il sentimento, il sogno, l’illusione, oppure accadono piccoli eventi poetici della vita, come la corsa di una bambina con la palla: nella "Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo", 1960, la palla diviene elemento formale che rimbalza per tutta la composizione, dai rosoni al cerchio giallo sul tabellone mentre le colonne del portico diventano birilli, lasciando il parato semplice e ortogonale della facciata e inclinandosi verso l'indistinto. Non è un caso, allora, che i fondi sabbiosi siano prevalentemente neri e pulviscolari.
L’incantamento surreale continua nel dipinto "Donna con gatto", 1964: se si assiste qui a un ritorno al modellato e a un naturalismo più evidente, la composizione invece si semplifica ulteriormente e si assolutizza in spazi vuoti dove tutto può accadere: una donna, seduta prospetticamente su uno sgabello solo frontale, può essere alta fino al soffitto e un gatto, più sintetico nelle forme, è incredibilmente l’unico inserito coerentemente nella stanza.
Nei collages, dalla seconda metà degli anni Sessanta, l’incongruità si sposta sul piano concettuale. Gli accostamenti di parti iconiche dipinte e di ritagli di giornali o di illustrazioni antiche che l’autore acquista sulle bancarelle Lungosenna a Parigi (non si serve mai di fotografie) conferiscono effetti di spaesamento per l’incoerenza con la scena, e formalmente scandiscono in senso astratto l’insieme, sbalzando sul piano parti che ci si aspetterebbero tridimensionalmente chiaroscurate, come nella "Natura morta Vino del Moro", 1966.
Una parentesi va dedicata alle "Carte da Gioco", i cui bozzetti preparatori (del 1970) sono stati realizzati ad olio e collage su cartone sabbiato, e pubblicati come cartella di incisioni nel 1971 e infine come mazzo di carte nel 1976. Vi si coglie la raffinata e sorniona ironia del pittore che rappresenta i volti di Fanti Regine e Re con un semplice ritaglio incollato, togliendo loro caratterizzazione e rendendoli punto centrale della lettura dell’opera. Al contrario, mani e piedi sono dipinti con realismo, forse per catturare l’osservatore e trasportarlo, dal proscenio dove si appoggiano, all’interno della scena, in un buio intrigante in cui proiettare ogni immaginazione.
Il collage serve a Gentilini per scomporre definitivamente ogni canone logico della rappresentazione, tanto che il pittore lo citerà anche dipingendolo, come in Rue de Sèvres, 1969, che riunisce collage, scomposizione bidimensionale dei volumi, disegno sintetico fino a certa descrizione naturalistica.
Lo stile di Gentilini si affina in un naturalismo dai toni più vivaci e sfumati, nel "Nudo sul divano con gatto", 1970, e nel "Ritratto di Luciana", 1978. Se il primo - ritratto della seconda moglie Luciana - rappresenta per antonomasia il soggetto femminile di Gentilini, nel secondo, ispirato alla ritrattistica di Lucas Cranach, Luciana appare caratterizzata come amica e confidente, interlocutrice che si mostra serenamente senza veli né simboli e né caratteristiche qualificanti, se non lo sguardo e il sorriso.
Luciana entra di diritto nell’arte di Gentilini, diviene simbolo, e come tale trascende dalla propria individualità, mentre conserva la dimensione privata nei ritratti su carta, a semplice grafite e o sanguigna, o negli acquerelli tracciati durante le vacanze estive o in momenti di intimità quotidiana, vero racconto di vita.
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